Chesapeake, la compagnia statunitense simbolo del boom dello shale oil e dello shale gas, ha chiesto la protezione dai creditori, diventando il maggiore gruppo energetico a finire in bancarotta dall’inizio della pandemia di Covid-19. Tra le pioniere del fracking, la tecnica utilizzata per estrarre idrocarburi dalle rocce, ai tempi del boom del settore Chesapeake era diventata il secondo produttore Usa di gas naturale, ricorda la Cnn. Il crollo delle quotazioni dovuto all’eccesso di offerta globale, esacerbatosi con il ‘lockdown’, ha successivamente dato il colpo di grazia a un comparto diventato sempre meno competitivo con la progressiva flessione del prezzo del barile, per via degli elevati costi di produzione.
Un’acquisizione sbagliata e un mucchio di debiti
Fatale per i destini del gruppo fu l’acquisizione nell’ottobre 2018, costata 4 miliardi di dollari, della società di perforazione texana WildHorse Resource Development. Un’operazione che, viste le basse quotazioni del gas, i vertici avevano messo in campo per aumentare i ricavi espandendosi un settore, quello petrolifero, che all’epoca sembrava più lucroso. Ma le tempistiche dell’affare, alla luce della successiva flessione dei prezzi, non avrebbero potuto essere più sbagliate.
Dallo scorso gennaio, Chesapeake ha bruciato oltre il 93% del proprio valore in Borsa, con il prezzo delle azioni precipitato da 172 dollari agli 11,85 dollari della chiusura di venerdì scorso. All’inizio del mese, l’azienda aveva saltato il pagamento di interessi per 13,5 milioni di dollari, a quanto si evince dai documenti depositati presso la Sec. Terminato il periodo di grazia di 30 giorni, è scattato il default tecnico, che ha costretto la società a invocare il “Capitolo 11”. Il preaccordo con i creditori prevede la ristrutturazione di 7 dei 9,5 miliardi di debito che gravano sui conti di una compagnia che nel primo trimestre aveva registrato una liquidità di appena 82 milioni di dollari a fronte di una perdita netta di 8,3 miliardi di dollari.
Secondo un recente rapporto di Deloitte, un terzo degli operatori shale statunitensi sono tecnicamente insolventi.