Tanto “brain drain”, ovvero fuga di cervelli ma anche di braccia giovani e forti verso Paesi stranieri che promettono condizioni di vita e lavoro migliori. E tuttavia anche un po’ di inaspettato “brain gain”, ovvero il ritorno in patria di persone che si sono formate all’ estero e che decidono – un po’ a sorpresa – di rientrare a casa, per costruirsi un solido futuro nei luoghi che avevano progettato di lasciare per sempre. Sono queste le due facce della medaglia della grande emigrazione dai Paesi balcanici ancora oggi fuori dalla Ue: un fenomeno complicato e potenzialmente esplosivo che è stato analizzato nel dettaglio dal Vienna institute for international economic studies (Wiiw), uno dei maggiori think tank concentrati sull’Europa centro-orientale e i Balcani. Wiiw ha deciso di scandagliare in ogni aspetto lo scenario di chi parte e di chi ritorna nei Balcani per comprendere il “profilo” dell’emigrante e del rimpatriato. Per farlo ha preso il concetto di “emigrazione netta”, ossia il saldo tra emigrati e immigrati, che è rimasto in zona negativa nell’ultimo decennio in tutta la regione balcanica, ha confermato il Wiiw: un saldo negativo con picchi soprattutto in alcuni Paesi che hanno vissuto un vero e proprio “esodo” verso nazioni più ricche, Germania in testa. Come la Bosnia-Erzegovina (popolazione di circa 3,3 milioni di persone), che ha perso circa 400 mila persone tra il 2011 e il 2019, in gran parte “giovani, i più mobili e più disposti a emigrare”, con una forte accelerazione negli ultimi anni, ha evidenziato il Wiiw, confermando le stime del Forum economico mondiale, che nel 2020 ha indicato nei Balcani e nella Bosnia in particolare una delle aree a più forte “brain drain” nel mondo.