Di seguito le riflessioni di Gianluca Polifrone, direttore ufficio di presidenza Aifa e autore di: “Sanità digitale inizia la rivoluzione? Riflessioni sulla sanità che vorrei”
«L’ondata di contagi causata dalla variante Omicron, con i suoi numeri a sei cifre e il clima di incertezza che sta generando, dimostra ancora una volta come l’attuale assetto della nostra sanità sia palesemente inadeguato, e non solo in ottica emergenziale. Ci troviamo, infatti, in una vera e propria rotta di collisione con la realtà, se non decideremo di imprimere una svolta innovativa perciò che riguarda l’intera filiera della salute nel Paese. Le criticità sono molte e vanno analizzate con attenzione, anche perché sono in stretta correlazione tra loro. Sicuramente la medicina territoriale è in profonda crisi di identità. Lo dicono gli stessi medici di medicina generale, che lamentano un eccessivo peso burocratico da una parte e una mancanza di strumenti che consentano loro di svolgere al meglio il loro ruolo di prossimità del Sistema Sanitario Nazionale. Sul tavolo ci sono molte proposte: i medici di medicina generale per esempio lamentano la mancanza di personale infermieristico a loro disposizione, così come la mancanza di una edilizia pensata per gli studi dei medici. Tra i punti di criticità c’è poi l’aspetto tecnologico: ancora manca una rete di telemedicina efficiente che consenta, attraverso strumenti oggi assolutamente alla portata di tutti, di istaurare un dialogo virtuoso tra medico di medicina generale e ospedaliero, utilizzando il fascicolo sanitario elettronico nato ormai dieci anni or sono come archivio, memoria e terreno di incontro tra i diversi attori della sanità MMG compresi. La telemedicina in una situazione come quella attuale è tra gli strumenti decisivi, se accompagnata da un vero e proprio piano organico, perché potrebbe aiutare a effettuare visite a distanza, senza dover ricorrere di persona ai servizi di continuità assistenziale o ai pronto soccorso degli ospedali. Le prescrizioni dei medici, forti anche della possibilità di controllare fattori di rischio per eventuali malattie pregresse, potrebbe orientare la scelta terapeutica e, in questo modo, limitare gli accessi ospedalieri a quelle situazioni in cui sono veramente appropriate. La vera telemedicina non può essere ridotta a un consulto su whatsapp o a una visita usando le piattaforme dei grandi player dell’Information Technology. Intendiamoci: trovo meritorio che i medici siano prodigati per erogare servizi a distanza con i pochi mezzi a disposizione. Ma è necessario comprendere che la telemedicina vera è altro. Va collocata in un piano più ampio che preveda anzitutto la reingegnerizzazione dei processi organizzativi ad oggi fortemente ancorati a processi analogici, passando per una formazione costante degli operatori a tutti i livelli per traguardare un presupposto di democrazia che io indico con le “pari opportunità digitali” per i cittadini. Tutti. A prescindere da reddito, età e alfabetizzazione.
Dobbiamo quindi per prima cosa lavorare all’obiettivo di ottenere una banda larga, stabile, adatta alle esigenze di chi vive nelle zone più isolate affinché possa accedere a servizi di livello anche da remoto. Dobbiamo creare delle reti nazionali basate su standard che consentano l’interoperabilità tra tutti gli attori della filiera, in senso verticale e orizzontale consentendo quindi il dialogo tra utente, medico di medicina generale, ospedale, farmacia ospedaliera e territorio. Il tutto in un’ottica di integrazione dell’offerta sanitaria che sia valida da nord a sud. Tuttavia l’esigenza di ottenere tutto ciò sembra entrare in conflitto con la regionalizzazione dell’offerta sanitaria. A parere di chi scrive questo è il frutto di un grande equivoco che dovremmo deciderci a sciogliere una volta per tutte. La riforma del titolo V della Costituzione ha attribuito alle Regioni la “tutela della salute” senza con questo introdurre la “regionalizzazione della sanità”, come invece sembra potersi evincere dalla prassi. Le Regioni hanno l’autonomia in termini di erogazione del servizio, secondo politiche che vengono decise a livello regionale. Ma sul versante dell’innovazione deve essere lo Stato che, forte di quanto scritto in Costituzione (il riferimento è l’articolo 117, lettera r) mantiene il coordinamento informativo statistico e informatico dell’amministrazione statale, regionale e locale. Questo vuol dire che è lo Stato a dare le linee di indirizzo. Le regioni hanno il compito di tradurle in prassi operativa rispettando però standard nazionali. Anzi: internazionali, perché dobbiamo pensare alla grande opportunità che abbiamo nel rendere il nostro Paese attrattivo anche per ciò che riguarda il fenomeno del turismo sanitario. In ogni modo ci tengo a dire che tutto ciò non è una novità in senso stretto. Se ne parla da almeno 20 anni e anzi, va ribadito come ciò che sto dicendo era già in qualche modo anticipato dalle Linee di Indirizzo nazionali per la Telemedicina sancite in conferenza Stato Regioni già nel 2014. Fino a oggi non si è fatto un piano organico per la sanità digitale perché le riforme prima che della pandemia potevano essere portate avanti solo rispettando una clausola di invarianza economica. Ciò significa che non potevamo investire un euro in sviluppo, nemmeno se questo avesse generato un risparmio in tempi medi. Oggi i fondi del PNRR, erogati dopo l’emergenza pandemica, assicurano lo stanziamento di una ingente quantità di denaro che dovrebbe essere speso in progetti mirati a raggiungere gli obiettivi che abbiamo indicato. Solo che questi soldi devono essere investiti in maniera opportuna e non dispersi in mille rivoli, con il rischio di sprecare risorse in progetti a macchia di leopardo. Abbiamo un sistema sanitario universalistico fiore all’occhiello e un esempio di welfare con pochi eguali al mondo. Se vogliamo continuare a offrire ai nostri concittadini prestazioni di livello su tutto il suolo nazionale, lo Stato deve svolgere un compito che non è quello di essere “proprietario” della sanità, ma esercitare un ruolo di ente regolatore dei processi informatici e custodire in sicurezza i big data sanitari dei propri cittadini. Quindi non mi ritengo uno statalista e riconosco il ruolo fondamentale del mercato ma sono consapevole del valore strategico dei dati sensibili dei nostri connazionali. E sinceramente preferisco che sia lo Stato a gestirli, piuttosto di un colosso dell’IT, straniero, che considera i dati uno strumento per fare business. Dunque la questione in ballo non è quella relativa all’essere statalisti, quanto sapere che i dati sensibili dei cittadini devono rimanere patrimonio della comunità a cui appartengono e lo Stato nel rapporto con il mercato deve esercitare il ruolo di azionista di maggioranza poiché deve tutelare l’interesse generale.
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